Sabato 13 settembre, nel corso del Giubileo della Speranza e in occasione dell'anniversario della morte di Dante Alighieri, l'amico letterato Giona Colombo ha tenuto presso il Sacro Monte di Varallo un'interessante e approfondita conferenza sul tema "Spene è un attender certo della gloria futura. Dante pellegrino di speranza", con l'ottimo accompagnamento all'organo di Matteo Segantin e l'elegante elaborazione grafica a cura di Gaia Giovangrandi.
Il giovane professore ci ha guidato nella Commedia con l'occhio rivolto alla speranza: dal «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’» (Inferno, III, v. 9) campeggiante tragicamente sulla porta infernale (precisamente l'opposto di una porta giubilare, ha fatto notare Giona) alla salita orante lungo il monte ove «la speranza ha fior del verde» (Purgatorio, III, v. 135) fino alla visione celestiale, attesa con certezza da chi spera, «de la gloria futura» (Paradiso, XXV, v. 68).
Una serata di "elevazione spirituale" - ha detto il Rettore della Basilica dell'Assunta, don Angelo Porzio - attorno alla speranza, descritta da Jean Daniélou come «la virtù di colui che è nel tempo. Essa s’appoggia sul passato per raggiungere l’avvenire attraverso la pazienza del presente».
Ma come nascondersi l'estrema difficoltà oggi di questa "pazienza del presente", circondati da un'oscurità sempre più fitta, o meglio - più profondamente - la radicale difficoltà di sperare sempre, dinanzi al dramma dell'esistenza?
Su questo tema quell'"avventuriero" (così si definiva lui stesso, in quanto padre di famiglia) che fu Charles Péguy ha scritto pagine memorabili (in parte già citate qui). Ne Il portico del Mistero della seconda virtù, trattando delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), lo scrittore francese giunge ad affermare: «La fede va da sé. La fede
cammina da sola. Per credere non c’è che lasciarsi andare, non c’è che guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi,
contrariarsi. [...] La carità disgraziatamente va da sola. La carità cammina da sola.
[...] Per non amare il prossimo [...] occorrerebbe chiudersi gli occhi e le orecchie. A tante grida di desolazione». Invece «quella piccola bambina speranza», che sembra portata dalle «due sorelle grandi» quando al contrario è lei a condurle, «non va da sola. [...] È la fede che è facile e non credere che sarebbe
impossibile. È la carità che è facile e non amare che sarebbe impossibile.
Ma è sperare che è difficile [...]. E la cosa facile e la tendenza è disperare, ed è la grande tentazione».
Una tentazione sempre più diffusa e ardua da vincere, quella della "di-sperazione": basti pensare al crescere esponenziale di suicidi giovanili in Europa, ad oggi prima causa di morte tra i 15 e i 29 anni, età in cui l'uomo di norma costruisce i propri sogni e ideali. Fino a raggiungere effetti assolutamente paradossali, come quello, risalente al secolo scorso, ricordato da Joseph Ratzinger in Introduzione al cristianesimo: «Un annunciatore radiofonico era riuscito sin troppo bene a diffondere la notizia puramente fantastica della catastrofica fine del mondo. Il colmo del controsenso fu questo: alcune persone si tolsero la vita per non morire. Ora, questo riflesso palesemente insensato dimostra che noi viviamo assai più del futuro che non dello stesso presente. Un uomo repentinamente privato del futuro è un uomo che può già dirsi derubato della vita stessa».Come, dunque, non disperare? Come - cantano Cremonini e Carboni in San Luca - «sperare che non sia tutto qui»?
Tra le varie proposte che si incontrano nel mondo c'è quella portata dal cristianesimo. Il Vexilla regis è un inno liturgico legato, sin dal VI secolo, alla festa dell'Esaltazione della Santa Croce celebrata dalla Chiesa il 14 settembre (tra l'altro, Dante lo cita in Inferno, XXXIV, v. 1): nella versione revisionata all'inizio del XVII secolo da Urbano VIII si trovano queste parole: O crux, ave, spes unica. Un pescatore palestinese di duemila anni fa, sulla cui tomba oggi sorge la chiesa più grande del mondo, un giorno disse: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). La croce divenne la sua unica speranza: tanto profondamente fondata (cfr. 1 Pt 3,15) da morirci sopra.
E tu, «di che speranze il core vai sostentando?»
Fonti:
ALIGHIERI D., La Divina Commedia (a cura di JACOMUZZI S., DUGHERA A., IOLI G., JACOMUZZI V.), SEI, Torino 2006 (opera del 1304-1321 circa), Inferno, III, v. 9 e XXXIV, v. 1; Purgatorio, III, v. 135; Paradiso, XXV, v.v. 67-68.
DANIÉLOU J., Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia, 2012 (III edizione, traduzione dell’opera del 1953), p. 370.ALIGHIERI D., La Divina Commedia (a cura di JACOMUZZI S., DUGHERA A., IOLI G., JACOMUZZI V.), SEI, Torino 2006 (opera del 1304-1321 circa), Inferno, III, v. 9 e XXXIV, v. 1; Purgatorio, III, v. 135; Paradiso, XXV, v.v. 67-68.
LEOPARDI G., Al conte Carlo
Pepoli, vv. 3-4 (poesia del 1826).
PÉGUY C., Il portico del Mistero della seconda virtù, https://www.asterorosso.com/2022/08/08/da-charles-peguy-il-portico-del-mistero-della-seconda-virtu/ (traduzione di un brano dell’opera del 1911).
RATZINGER J. (BENEDETTO XVI), Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005 (traduzione dell’opera del 1968, 2000 e 2005), p. 238 nota 38.
PÉGUY C., Il portico del Mistero della seconda virtù, https://www.asterorosso.com/2022/08/08/da-charles-peguy-il-portico-del-mistero-della-seconda-virtu/ (traduzione di un brano dell’opera del 1911).
RATZINGER J. (BENEDETTO XVI), Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005 (traduzione dell’opera del 1968, 2000 e 2005), p. 238 nota 38.