Gemma #90: "Imparare a morire per vivere"


90 pagine, come il numero di questa gemma. Appena 90 brevissime pagine. Che si leggono in meno di due ore. Ma che lasciano il segno.
La storia di «un'esperienza» (p. 87), raccontata pianamente, senza fronzoli. L'esperienza di vita di Xavi Argemí, ragazzo spagnolo nato nel 1995, ultimo di nove figli, morto il 22 aprile 2025, pochi anni dopo la pubblicazione di questo libro, edito in Italia da Ares. 
La storia di un uomo che ha vissuto in pienezza la propria irripetibile, unica storia. Affetto fin da piccolo dalla distrofia muscolare di Duchenne, una malattia incurabile e degenerativa causante la progressiva perdita delle forze muscolari e così di moltissime funzioni del corpo fino all'immobilità, consapevole della vicinanza della morte (cfr. pp. 44, 46, 63-64 e 87), nelle sue pagine si respirano larghe tracce di ciò che tutti cerchiamo: la felicità.
Una felicità generata giorno per giorno, anzi attimo per attimo, coltivando le semplici e «piccole gioie che fanno la vita meravigliosa» (è il sottotitolo del libro), che Xavi elenca (cfr. pp. 47 e 86) e descrive nei vari capitoli: le relazioni con genitori, fratelli, loro consorti, nonni, zii, cugini e nipoti; gli amici; gli studi (si è laureato in Multimedia presso la UOC); i progetti di lavoro; gli hobby e interessi, come il Barcellona, i gruppi musicali, i cani e le galline, la tecnologia; la vita spirituale. 
Circa quest'ultima Xavi è molto parco (ne parla nell'ultimo capitolo in appena sei pagine) e si rivolge anche a chi non crede, nella consapevolezza che la fede no, ma il dolore e la gioia accomunano certamente ogni uomo: «Le persone che non hanno fede possono comunque trovare un senso nella vita quando sono solidali con le persone intorno a loro» (p. 89). È l'antica, famosa "ricetta" della felicità, capace di far luce anche sul mistero del dolore: amare e lasciarsi amare. Scrive: «Nell'essere aiutati c'è un aspetto positivo per l'altra persona, per l'assistente: dovermi aiutare lo obbliga a tirare fuori altruismo. Questo pensiero mi aiuta molto nei momenti in cui cerco il lato positivo di questa circostanza limitante nella mia vita. [...] lasciandomi aiutare, in qualche modo faccio già qualcosa di buono per gli altri» (p. 55; cfr. pp. 87-88).
Un inno alla vita e ad una vita vissuta nella più assoluta «naturalezza», anche grazie all'atteggiamento di chi lo circondava che non l'ha mai compatito o ritenuto "diverso": «Pochi diminutivi, poco paternalismo del tipo "poverino" o "poveretto", ma un atteggiamento esigente condito di senso dell'umorismo» (pp. 73-74). 
Da tutto ciò un'insopprimibile voglia di vivere, che lo portò anche a esporsi pubblicamente contro l'eutanasia e per il miglioramento delle cure palliative, scrivendo in una lettera inviata a La Vanguardia: «L'eutanasia è un trattamento per far sì che io muoia. E io dalla medicina mi aspetto un'altra cosa: un trattamento perché sto morendo. Cioè, è molto meglio investire in accompagnamento in questi momenti» (p. 46). 
Concludo con un ultimo spoiler, troppo bello, ma bella, vera, ricca nella sua semplicità è ogni riga di queste poche pagine: «la sfida più grande, che ho avuto a portata di mano, è stata questa: distinguere le circostanze dai problemi. Le circostanze sono cose che ci sono e con cui bisogna fare i conti. Devono essere accettate. [...] Non camminare non è un problema, è una circostanza. Invece, per esempio, studiare un corso universitario si è presentato come un problema: di mobilità, di capacità, di opportunità..., una sfida su cui potevo fare qualcosa di più che rassegnarmi». Ebbene, «Se non accetti che ci sono cose che non puoi risolvere, ti crei due problemi: la malattia stessa e il fatto di pensare che non puoi fare certe cose. Ti crei uno scoraggiamento e ti crei in testa una bolla, che è un problema aggiuntivo alla malattia. Se invece accetti che è così, hai solo la malattia. Le cose che non posso fare diventano circostanze, e le cose per cui posso ancora lottare sono problemi. I problemi posso affrontarli; le circostanze le devo gestire» (p. 26). Xavi probabilmente doveva conoscere il filosofo suo connazionale Josè Ortega Y Gasset, o se non lo conosceva, ne ha certamente concretizzato questo pensiero (da Meditazioni sul Chisciotte): «il senso della vita consiste nell'accettare ciascuno la propria inesorabile circostanza e, nell'accettarla, convertirla nella propria vocazione».

Post scriptum: il 5 ottobre ho assistito ad una bellissima conferenza del Professor Antonio Petagine nella quale è stata offerta questa illuminante illustrazione della felicità: felice non è chi ottiene le soddisfazioni che desidera realizzando le proprie aspettative, ma chi si dedica a qualcosa che è dotato di intrinseco valore, coltivando il meglio di sé per realizzarlo, e riconoscendosi in tale realizzazione. La storia di Xavi ne è una riprova concreta.

FONTI:
ARGEMÍ X., Imparare a morire per vivere. Piccole cose che fanno la vita meravigliosa, Ares, Milano 2025 (traduzione dell'opera del 2021).
ARGEMÍ X., No va d'eutanàsia, in "La Vanguardia", 17 aprile 2019, https://www.lavanguardia.com/participacion/cartas/20190417/461706042356/no-va-deutanasia.html.
REALE G., ANTISERI D., Il pensiero occidentale. 3. Età contemporanea, La Scuola, Brescia 2013, p. 408.