Gemma #61: qualche dubbio sul dubbio sistematico (prima parte)


Mi hanno sempre colpito e interrogato i filosofi scettici e in generale i sostenitori del dubbio "sistematico" o "universale": osservano tutti dall'alto della loro torre della sospensione del giudizio, lo sguardo compassionevole soprattutto verso «coloro che cercano gemendo» (Blaise Pascal). Lo scettico di ogni tempo e latitudine non si sorprende mai sicuro di qualcosa (tranne che della bontà e superiorità del proprio pensiero), non prende posizioni chiare, rimette in discussione senza tregua le eventuali conoscenze acquisite. Col risultato che, ad esempio, finisce un corso di studi con più dubbi, sulle stesse questioni, di quando aveva cominciato. Oppure che, in campo etico, ammette un'azione ma anche il suo contrario. Viviamo nell'epoca del "pensiero debole", attanagliato senza scampo dal dubbio. 
In tema ecco allora alcune righe raccolte qua e là che mi sembrano interessanti spunti di riflessione.
Anzitutto in ogni questione è benvenuta (anzi, è sempre necessaria e doverosa) una buona dose di dubbio, contro ogni genere di fideismo o dogmatismo; un'ipotesi non è altro che una certezza precedente messa in dubbio: in questo senso, il dubbio (porsi buone domande!) è un prezioso stato potenziale di inquietudine, dal quale la mente cerca naturalmente di uscire verso la quiete della verità. Scrive Thomas Stearns Eliot: «ciò che rende Montaigne [il famoso scettico che sulla biblioteca aveva scritto: "Senza inclinare da un lato"] una figura grandissima consiste nel fatto che […] egli riuscì a dare espressione allo scetticismo di ogni essere umano. Infatti, ogni uomo che pensa, e vive di pensiero, deve avere il proprio scetticismo». 
Ma è possibile rimanere fermi a un "moderato" scetticismo? Chi non desidera conoscere sempre di più e sempre meglio? E come può progredire una qualunque conoscenza - pensiamo alla medicina - senza accoglimento delle conquiste del passato in vista di sempre nuovi e più alti traguardi? In campo religioso - rileva Alejandro Llano - «si crede qualcosa perché si vede che la scienza e la veracità del testimone ne garantiscono la verità […]. Credere a qualcosa è sempre credere a qualcuno. Si noti che noi accogliamo un gran numero di verità naturali sulla base di testimonianze altrui: la maggior parte delle notizie, delle descrizioni geografiche, delle vicende storiche, delle conclusioni scientifiche che non sono alla portata di una personale sperimentazione. […] Diffidare sistematicamente di tutto ciò che ci viene proposto di credere, significa limitare drasticamente il nostro bagaglio di cognizioni e rendere impossibile la nostra vita nella società. Il sospetto assunto come metodo non porta a nulla». Fa eco a queste considerazioni Clive Staples Lewis: «Il novantanove per cento delle cose che crediamo lo crediamo sull’autorità altrui. […] Chi si inalberasse contro l’autorità in altri campi, come alcuni fanno in materia religiosa, dovrebbe accontentarsi di non sapere nulla per tutta la vita» (per approfondire cfr. Catechismo, nn. 154-156 e Giovanni Paolo II-K. Wojtyla, Fides et ratio, nn. 31-33).
Per oggi fin qui. Proseguiamo domani.

Fonti (v. seconda parte).

Immagine: 
Anonimo, Ritratto di Lord Michel Eyquem de Montaigne, fine del XVI secolo.